Accade quindi che istituzioni nate per soccorrere l’uomo finiscano per danneggiarlo o addirittura
sopprimerlo, o che l’infinito piacere di imparare venga sostituito dalla pratica poco amata dello
“studiare”.
Imparare è pratica naturale di evoluzione e crescita della personalità e procura emozioni delicate e favorevoli,
a volte perfino ineffabili. “Studiare” ovvero inserire di forza nel proprio apparato percettivo una serie di concetti e nozioni non chiamate dal desiderio, si rivela
invece a lungo andare una pratica perversa, capace solo di annullare
qualsiasi reale desiderio di
conoscere. Ma l’imparare nasce dalla brezza del desiderio e offre una risposta voluta, accolta con
gioia e con la partecipazione attiva di tutta la personalità.
“Studiare” per contro “costringe” una mente spesso riluttante, spesso estraniata, ad applicarsi
a nozioni e dati che non suscitano il
minimo interesse
e che quasi sempre sono lontani dalle reali necessità della persona.
Per
questo le scuole di ogni ordine e grado, pubbliche o private, tradizionali e sperimentali, a un attento esame
delle loro strutture operative rivelano inquietanti analogie con
gli istituti di pena e a volte perfino
con i
campi di sterminio. La scritta “il lavoro rende l’uomo libero” di sinistra concezione nazista,
posta all’ingresso dei campi annunciati all’inizio come “campi di rieducazione” e divenuti ben
presto campi di sterminio, potrebbe dunque trovare un perfetto analogo nella scritta “l o studio rende l’uomo libero”.
Lo studio, nato per promuovere ed estendere la creatività e divenuto ben
presto uno strumento capace di estirpare qualsiasi creatività e di demolire ogni desiderio naturale
di
apprendere.
Imparare, apprendere, ampliare le proprie conoscenze del mondo si rivela come uno dei massimi
piaceri che la natura offre, mentre “studiare” è ormai
divenuto un tormento permanente. Cercherò di esemplificare una distinzione fondamentale tra i due procedimenti. Imparare corrisponde grosso modo al piacere di nutrirsi, magari scegliendo i cibi a seconda dei propri desideri, che poi assai spesso corrispondono alle necessità dell’organismo.
Studiare invece
corrisponde a un “trattamento sanitario obbligatorio” come se qualcuno lo programmasse così:
ore otto pane, ore 9 pasta, ore 10 carne, ore 11 verdure, ore dodici
frutta.
E così ogni giorno e, difronte a tentativi legittimi di disperazione o di ribellione della vittima di turno, l’”ingozzatore” non
senza innocente cinismo enunciasse la sua verità: “Guarda che se non
ti
nutri muori”. Un'evidente analogia accade nel nutrire spietata osservanza “dei programmi”. Sì, i ragazzi a scuola si annoiano, fingono di ascoltare, sono sempre meno capaci di esprimere una loro visione del mondo, ma “il programma è stato rispettato e ultimato”. Pian piano si è praticamente estinto ogni naturale
desiderio di sapere, e smarrito per sempre il piacere di “conoscere”.
N.B l'autore non ha conosciuto scuola fino all'età di 11 anni
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